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L’editoriale, ambientalista, dell’Uomo Nero

Editoriale green

“Vedremo soltanto una sfera di fuoco” – cantava Francesco Guccini nel lontano 1967, più di cinquant’anni fa. Era una delle sue prime canzoni, ritmata in un battente giro armonico re-do-re-la. Descriveva un mondo post-atomico, all’indomani di un conflitto nucleare che avrebbe distrutto il mondo, annientato ogni forma di vita e consegnato il pianeta “solo al silenzio”.

   L’unica consolazione in questo quadro apocalittico era la convinzione che tale catastrofe sarebbe accaduta senza di noi. E il titolo della canzone è per l’appunto Noi non ci saremo.

   Purtroppo non andrà così: noi ci saremo quando la Terra collasserà e si sbriciolerà pezzo dopo pezzo, tra alluvioni, terremoti, tempeste magnetiche e cicloni incandescenti. Fino alla definitiva sterilità. Ma non a causa di guerre atomiche ed esplosioni nucleari a pioggia. Non ce ne sarà bisogno.

   Se persiste il progressivo riscaldamento degli strati gassosi della superficie terrestre, sarà il pianeta stesso che imploderà rovinosamente. Sempre più arroventato da un’atmosfera surriscaldata, indebolito nella sua intelaiatura geologica, stremato e consumato dallo sfruttamento delle sue risorse naturali.

   Fin d’ora si avvertono i primi scricchiolii, le prime crepe, le prime oscillazioni climatiche. Deserti che si estendono e ghiacciai che si riducono, stagioni sempre più anomale e alterazioni elettromagnetiche. Con tutto quel che ne consegue sul ciclo biologico e sull’assetto strutturale.

Gli effetti sull’immigrazione

   Ma la conseguenza più vistosa e preoccupante riguarda il consistente spostamento di intere popolazioni dalle proprie terre d’origine, rese via via sempre più inabitabili dai cambiamenti climatici. Gigantesche migrazioni dalla fascia sub-equatoriale verso i meridiani più settentrionali, scavalcando le montagne, attraversando i deserti, navigando i mari.

   I grandi flussi migratori di quest’inizio secolo non sfuggono solo alla fame, alle povertà, alle guerre, ma sono originati anche dall’invivibilità di porzioni sempre più estese di territorio.

   Un fenomeno che rappresenta la nemesi dell’ingordigia. Secoli di depredazioni e saccheggi hanno estenuato quelle terre, da cui oggi sono costretti a fuggire quei popoli che hanno subito tale sfruttamento. Né muri, né lager, né porti chiusi riusciranno a fermare questo inarrestabile flusso umano che chiede una nuova vita ed è disposto a tutto pur di raggiungerla.

   La civiltà del mercato, le economie occidentali, il sistema capitalistico sono come gli apprendisti stregoni: hanno seminato vento e ora raccolgono tempesta.

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