Mi chiamo Bangaly Fode e vengo dal Mali.
Dal 2012 il mio paese è in guerra, una guerra tra il governo, i ribelli e i terroristi, che ci obbliga ad abbandonare le nostre città, i villaggi, a portare via i figli, i fratelli, le mogli, le nostre mamme, le nostre sorelle, a lasciare le case che abbiamo costruito e a ricominciare un’altra vita, in un altro paese. Ma non è una guerra ufficialmente dichiarata, è una guerra indicibile, che i maliani sono costretti a combattere per gli interessi dei paesi europei.
E questo vuol dire che qui in Italia non ho il diritto di essere considerato un rifugiato. Mi guardano, mi fanno domande e non ascoltano le risposte, mi guardano e non decidono se posso restare. L’attesa è lunga e in Italia ho imparato molto presto la parola “chissà”. Quanto ci vorrà, quando saprò se posso davvero restare? Chissà.
Sono a Roma da quasi due anni. Per arrivare qua, ho rischiato di morire, alle frontiere e in mezzo al mare. Ma anche questa città è piena di frontiere: invisibili ma insuperabili. Ci sbatti contro per anni e inventi ogni giorno un modo diverso per superarle, a volte ci riesci ma non basta mai.
Vivere in una città senza saper parlare di niente, dei tuoi desideri o dei tuoi sentimenti, dei tuoi bisogni o dei tuoi diritti, è difficile. Difficile. Tutti i suoni che sento qui sono diversi da quelli di mia madre, della mia famiglia e della mia casa. Anche il suono del vento è diverso. Ho dovuto abituare le orecchie a una nuova musica.
Nella mia prima estate a Roma passavo ore davanti a un bar o a un ristorante. Guardavo le persone che entravano e ascoltavo le loro parole, provavo a riconoscere i nomi delle cose: l’acqua, il caffè, il biglietto, il panino, la ricarica.
Il ristorante a pochi passi da me mi sembrava irraggiungibile: ogni giorno speravo di trovare la forza di entrare per chiedere una pizza, solo per scoprire il suo gusto. Nella mia testa ripetevo milioni di volte “una pizza per favore”, come facevano tutti gli altri, ma dirlo ad alta voce era impossibile. Quelle parole che non riuscivo a dire erano diventate una frontiera insuperabile.
Ho iniziato a studiare l’italiano, prima le vocali e poi le consonanti: insieme suonavano l’italiano.
“Se non impari la lingua non puoi lavorare”, mi dicono. Ora ho l’imparata ma non lavoro lo stesso. “Disoccupato” è una di quelle parole che dico più spesso: non c’è lavoro, sono disoccupato. Mi dicono sempre che adesso non c’è lavoro per nessuno, neanche per gli italiani, che al massimo lo trovano precario. Vorrei essere abbastanza bravo con l’italiano per spiegare che secondo me c’è una grande differenza tra il rischiare di perdere il lavoro e non averlo mai avuto.
In Mali facevo l’orafo, ero bravo. Qui da quando ho imparato l’italiano ho provato a fare tutto: il muratore, il lavapiatti, cameriere, il meccanico, il fornaio. Ma la riposta è sempre No.
No, perché con i documenti è un casino. No, perché non hai esperienza. No, perché hai imparato poco. No, perché devi sapere parlare bene l’inglese. No, perché sei un africano. No, perché non mi fido. No, perché sei nero.
Sempre No.
Mille porte a cui busso, mille porte che non si aprono.
Mille porte che non si aprono, un muro che mi separa dalla vita che non posso provare a ricominciare.
Ho sbagliato paese?
Sono qui ad aspettare e non posso tornare indietro, sono bloccato a Roma da due anni. In questa città ho conosciuto tante persone da tutto il mondo, molti hanno sofferto tanto, abbiamo storie diverse ma tutti aspettano. Aspettano con volontà e coraggio. Aspettano un aiuto. E anch’io posso aiutare il vostro paese, sono bravo.
Io amo la vita, voglio cantare, voglio studiare, voglio ridere e voglio lavorare.