Silvia Romano. Quando fare la cooperante è dare un senso alla propria esistenza.

Pochi giorni fa il compleanno della giovane milanese tutt’ora dispera. Un’occasione per riflettere ancora sulla vicenda di Silvia.

“Fare la cooperante non è un capriccio”. Recita così l’apertura di uno dei tanti articoli che si trovano sul web appena si digita il nome di Silvia Romano. Nome diventato tristemente familiare, che risuona ormai da più di un anno, da quando la ragazza milanese è stata rapita in Kenya durante una missione umanitaria. Una di quelle missioni che fanno pensare all’ormai noto “aiutiamoli a casa loro”.

Silvia a casa loro c’è andata e per ora ci è anche rimasta. 24 anni, compiuti pochi giorni fa, un compleanno amaro, lontano dalla famiglia, dalla sua terra, dai suoi affetti. Dispersa chissà dove, chissà con chi, nelle mani di qualche bandito al quale, forse, una persona venuta da lontano per aiutare dei bambini risultava troppo scomoda. Silvia è stata ed è scomoda forse anche a qualche italiano che fino al giorno prima del suo rapimento inneggiava al famoso aiuto a casa loro ma poi non ha smesso di criticarla perché a casa loro ci è andata davvero.

Avere 24 anni e sentirsi così piena di vitalità da pensare di regalarla un po’ anche a chi nella vita ha quasi sempre visto solo sacrificio, lotta quotidiana, sopravvivenza. È vero fare la cooperante non è un capriccio, è dare un senso alla propria esistenza, è pensare che andare in quelle terre sperdute, così tanto distanti dalle nostre non solo in termini di km, significhi offrire un aiuto concreto. Significa immergersi in quelle vite, in quei problemi, in quella cultura e in quelle tradizioni. In quelle abitudini per provare a renderle migliori, più vivibili e meno sofferenti. In fondo che male c’è se invece di andare a ballare in discoteca il sabato sera Silvia pensava di ballare qualche danza tipica keniota insieme a bambini del posto, mentre tra una parola in swahili o in inglese provava ad insegnare qualche termine in italiano. Che male c’è a pensare di poter cambiare un po’ di quel mondo difficile, quel Kenya così bello da vedere in cartolina ma così poco vivibile nel più sperduto dei villaggi. Che male c’è a voler affrontare lontananze e assenze per regalare vicinanza e presenza a chi è spesso stato solo, a chi una famiglia non l’ha mai avuta, che conosce poco i termini affetto e amicizia e molto quelli violenza e sofferenza.

Purtroppo il criticare chiunque a prescindere da tutto è un atteggiamento che spopola sul web, nei bar, nelle strade. Con il rischio di non provare empatia verso mondi ed esperienze distanti dalla nostra, di essere anestetizzati rispetto a qualunque cosa non entri nel nostro orticello. Basta riempirsi la bocca di pregiudizi, frasi fatte e il gioco è concluso. Anche una giovane vita di cui si sono perse le tracce da un giorno all’altro ormai fa poco effetto, diventa l’ennesimo articolo da leggere o commentare quando non si ha nulla da fare.

Chi vive della relazione d’aiuto verso l’altro invece sente questa scomparsa come fosse successo a se stesso, come se fosse sparito un proprio caro. Perché non si può restare indifferenti davanti a tutto ciò. Perché due genitori hanno festeggiato un compleanno senza una torta con delle candeline da spegnere, senza un regalo da donare o un tanti auguri da intonare insieme alla propria figlia. Perché, se ci pensiamo bene, è solo grazie a quei due genitori e a tanti altri come loro che oggi esiste Silvia e altrettante Silvia nel mondo. Che ogni giorno si spendono nel loro piccolo per far sì che questa vita sia meno complicata, che la realtà sia più bella agli occhi di ogni bambino. Auguri Silvia. A te e alla tua voglia di cambiare questo mondo. Ovunque tu sia, anche così la stai cambiando.

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