Al di là di trascurabili variabili, sia i ricercatori che i clinici sembrano aver stabilito che il coronavirus che ci sta decimando è l’evoluzione incattivita di quei diversi patogeni che all’alba del millennio sono stati coccolati in una delle tante schifezze disseminate sulla crosta terrestre. Stiamo parlando delle varie “influenze” incubate negli allevamenti intensivi, che si sono moltiplicati in modo esponenziale al di là della Grande Muraglia. Travolgendo e scarnificando un intero ecosistema e alterando geneticamente gli equilibri del ciclo vivente.
Una riedizione malvagia della trama orwelliana, dove polli e pipistrelli, maiali e ratti crudelmente si vendicano della tirannica ingordigia degli umani.
Sebbene circoscritti e arginati, i contagi hanno continuato a svilupparsi lungo percorsi biologici per ora solo intuiti ma in gran parte ancora misteriosi: in sostanza, si sono irrobustiti e ora s’insinuano minacciosi nel nostro ciclo vitale. Assumendo inoltre caratteristiche sconosciute, perciò sempre più difficili da contrastare, e potenziando pertanto la loro carica letale. Caratteristiche tuttora sfuggenti, addirittura mutanti e affannosamente inseguite nei microscopi di mezzo mondo.
Tutto ciò era da tempo risaputo, documentato e pubblicato. Dati che le istituzioni scientifiche e le organizzazioni ambientaliste hanno a più riprese trasmesso a organi internazionali e governi locali; dati che tuttavia non hanno smosso di un millimetro chi avrebbe dovuto non solo prenderne atto, ma soprattutto farne derivare conseguenze. Va da sé che i principali responsabili di questa drammatica pandemia siano dunque i poteri politici che lungo almeno un ventennio si sono ciecamente avvicendati. Informati, sollecitati, implorati, hanno tuttavia trascurato l’incombente allarme sanitario.
Perché l’hanno fatto? Per quella fatale idiozia che colpisce chi si crede onnipotente e invulnerabile? Sì, anche. Per quella smisurata, quanto ingannevole fiducia nel pensiero scientifico che, costi quel che costi, infine doma, sottomette e controlla la natura? Sì, anche.
C’è poi la ragione vera, odiosamente terribile. Attrezzarsi a contrastare lo sviluppo di questi micidiali virus avrebbe comportato un cambiamento radicale di quel modello produttivo distruttivo, che sta irrimediabilmente spezzando gli equilibri climatici, biologici e ambientali del pianeta. Un pianeta stanco di essere sfruttato e deprivato, e che proprio a causa di questo deterioramento si difende (o forse contrattacca) generando parassiti velenosi. Così come a intensificare uragani e tempeste, incendi e alluvioni, desertificazioni e scioglimento di ghiacci e ghiacciai.
Sono semplificazioni indebite? Semplificazioni sì, indebite no.
Ma nonostante la pandemia stia ancora infuriando e la contabilità dei caduti s’infittisca giorno dopo giorno, non c’è traccia di ripensamenti. Si cerca di arginare gli effetti ma non si affrontano le cause che li hanno prodotti. Si preferisce mettere in quarantena mezzo mondo, invece di risanare la catena alimentare. Meglio trovare un vaccino che riconvertire un apparato produttivo. Non sembra possibile fare diversamente. Troppo costoso sacrificare profitti e fatturati: la competizione economica globalizzata non lo permette. E l’orchestra del capitale continua a suonare le sue arie macabre e stridenti sulla tolda del Titanic.
Ci si appresta a riaprire le fabbriche, a riattivare le filiere, a strappare foreste e risucchiare petrolio, a infestare l’atmosfera e cementificare i suoli, a ripristinare insomma quelle cadenze accumulatorie che s’invocano come la soluzione, mentre al contrario costituiscono il problema. E tutt’intorno echeggia l’edificante ritornello dell’andrà-tutto-bene, tanto stucchevole quanto vano.
No, non andrà bene. Si tornerà al punto di partenza: solo più malconci e incolleriti.
Per un dopo sempre più improbabile, qui da noi si è deciso di affidarsi a commissioni e comitati, agenzie, organi, consulenze, commissariamenti, una pletora che neanche la fantasia burocratica di Musil avrebbe mai osato immaginare.
Sono tuttavia in prevalenza gli stessi che hanno agito e gestito il prima, economisti prestigiosi e manager in affitto, finanzieri e lobbisti, affaristi e faccendieri. Gente il cui mestiere è sfruttare il lavoro e imporre i consumi, ottimizzare i ricavi e scaricare le perdite, evadere le tasse e speculare sul mercato. Rigidi come le ascisse dei diagrammi sul saldo tendenziale del profitto, opachi come le loro costose cravatte: certo bravi a far di conto ma inadatti o forse proprio incapaci a immaginare scenari diversi, orizzonti alternativi. Riproporranno acciaio e idrocarburi, cantieristica e catene automobilistiche, armamenti da esportare e chimica con cui inquinare.
I pochi che parlano linguaggi diversi restano inascoltati. Chi chiede uno slancio risanatore viene malamente accantonato. Chi propone di rimettere a posto i suoli e i mari e di produrre merci pulite e utili rimedi subisce scherno e disprezzo. Chi invoca modelli di vita in armonia con la natura e relazioni tra i popoli più umane e sorridenti rischia l’arresto.
Se la cultura si consegna all’economia, se la politica non ha il coraggio di cambiare lo stato delle cose esistenti, finirà dove tutto è cominciato. In un nuovo big-bang che questa volta non accenderà la vita ma la spegnerà.