Tra la rivoluzione industriale e la rivoluzione digitale è mancata una rivoluzione umana, rigenerativa e propositiva. L’Io si è sganciato dal Noi e, anziché essere soggetto protagonista e autodeterminante per e nella comunità, si è sottratto a essa. Prigioniera di un presente che si è già compiuto, ignara e incapace di proiettarsi verso il futuro prossimo che è già presente, l’irrequietezza ha trovato ormai dimora in ciascuno di noi.
Ma è proprio dentro questa precaria traiettoria che dobbiamo preservare l’essenziale che fa rima con esistenziale. Abbiamo confuso l’esperienza intendendola come cumulo di accadimenti e non come avvenimenti che generano un senso realistico della nostra pochezza, e questo ha suscitato un senso di appagamento narcisistico, un senso di compiutezza apparente. Abbiamo sottratto una delle funzioni dell’esperienza, e cioè come veicolo per una conoscenza rinnovativa, e lo abbiamo reso mero strumento di vanto autocelebrativo. La straordinaria immediatezza dell’esperienza, che oggi lascia cicatrici e domani riserva carezze, è proprio la prontezza. Affinché l’esperienza non venga derubricata a semplice accumulo di accadimenti ma diventi un consolidato vitale, il successivo passo deve essere la sua metabolizzazione, in un processo tanto consapevole quanto razionale. Per vivere autenticamente l’esperienza bisogna sospendere il giudizio: un giudizio che si è in condizione di esprimere e definire solo successivamente, a esperienza vissuta e consumata.
Viviamo un tempo in cui accumuliamo tante notizie, e questo sembra bastare a esonerarci dall’approfondimento e così rinunciando a dubbi preziosi e saper appaganti. L’evocata rivoluzione tecnologica, che tra i tanti meriti ha indubbiamente quello di aver accorciato le distanze e infranto barriere che si pensavano invalicabili, ha altresì distorto i rapporti di civile convivenza depotenziando quelle funzioni indispensabili per un vivere comunitario – curiosità, rispetto, identità – contribuendo pertanto al passaggio dall’autodeterminazione all’autoaffermazione dell’Io, un Io sempre meno implicato. Quindi se da una parte ci sono stati indubbi vantaggi evolutivi, non possiamo negare che dall’apertura conseguente alla globalizzazione, è corrisposta la messa in discussione di alcuni paradigmi fondanti. Questo ha generato un giustificabile disorientamento, che tuttavia sarebbe sbagliato tramutare in un rifiuto verso un processo ormai irreversibile.
Le forze intermedie che si accreditano a rappresentarci, anziché valorizzare queste insperate conquiste, sembrano oggi impegnate a interpretarle come un disvalore e nei casi estremi a negarle. Anziché valorizzare le diversità – dove per diversità non s’intende omologazione ma convivenza con le diversità – preferiscono enfatizzare le avversità, le contraddizioni, gli antagonismi. Dovremmo uscire da questo torpore inacidito, sfidando i nostri tempi con un sussulto generoso che possa ridestarci: e dobbiamo farlo insieme.
Michel Rukundo.