L’urlo italiano per George Floyd

“Quando ci liberiamo delle nostre paure, la nostra presenza rende liberi automaticamente coloro che ci circondano.” Con questa frase il leggendario Mandela ci esortava a prendere coscienza delle nostre paure e liberarcene, in una prospettiva duale in cui la mia liberazione diventa la liberazione dell’altro. Quello che è successo l’altro giorno nella splendida piazza del Popolo a Roma, ha a che fare con quei momenti memorabili che diventano non solamente accadimento ma avvenimento storico. La prima cosa che colpisce è la composizione dei numerosi partecipanti, tutti molto giovani, a testimonianza che ora sono loro a salire in cattedra e dare lezioni a chi a lungo si è abbigliato di buoni propositi ma che tali sono rimasti. In quella piazza si respirava aria di libertà, di speranza e di un rinnovato sentimento di ottimismo e fiducia per il futuro. Giovani e belli, direbbe Francesco Guccini, gli eroi di questo tempo sono loro e la tanta auspicata rivoluzione umana passa prevalentemente da loro. Invocano giustizia per l’assassinio di George Floyd e contestualmente rivendicano la libertà che non può prescindere dai diritti inalienabili che ogni uomo vanta in quanto essere umano. È un richiamo, neanche tanto velato, verso la classe politica che di giorno si professa ancorata ai principi liberali e di notte si dedica a generare alchimie per rimanere saldi al potere. I giovani manifestanti sono una ventata di ottimismo e iniettano tanta fiducia. Il clima contagioso non è condito da sole rivendicazioni e sarebbe una banalizzazione semplificarlo a sola protesta. È testimonianza, è partecipazione civica e politica, è esercizio del diritto a manifestare ed è co-partecipazione che si esprime in un senso di appartenenza. Il fatto che la politica è silente a questa piazza passa in secondo piano espressione della referenzialità di quest’ultimi. Il pretesto è la morte ignobile per mano (il ginocchio) dello Stato ed il grido che si innalza dalla piazza (no justice no peace) è la denuncia della iniquità dell’applicazione della legge nei confronti di chi magari ha un colore della pelle diversa e/o per via dell’orientamento religioso o sessuale. Non è più tempo di relativizzare le sofferenze e la ragione è intollerante ai soprusi. L’atteggiamento paternalistico con cui il tema delle diversità è stato affrontato è stato superato negli ultimi anni da una cultura del sospetto del diverso – alimentato da un atteggiamento securitario nella gestione della eterogeneità dei nuovi cittadini – e hanno oltrepassato la misura della ragionevolezza. La cromaticità della piazza non ha nulla da invidiare alla pubblicità della Benetton con la differenza che questa piazza è reale e non vuole vendere un concetto ma vuole esprimere una ideologia. Il sussulto di questa manifestazione deve essere d’ispirazione per la nuova classe politica. I diritti primari non possono essere oggetto di negoziazione e non si possono barattare a logiche miopi di interesse di parte, come è stato fatto per la legge sulla cittadinanza.

Manuela Jean Novarino si è portata un alleato forte, la Costituzione, e senza retorica denuncia l’indifferenza a kilometro zero nel bel paese in contrasto con i principi della nostra costituzione. Al grido “siamo tutti meticci” condanna la cultura della discriminazione che crea la condizione di abbruttimento della nostra società. A seguire prende la parola Susanna Owusu che negli anni si è distinta per la lotta a favore del diritto alla cittadinanza e contro l’Afrobia e chiede a gran voce la partecipazione attiva degli afro-discendenti per scardinare la radice dell’odio nei confronti del diverso. Segue l’intervento di un politico di lungo corso impegnato a favore di una cultura inclusiva e diversamente dalla grammatica politichese, sorprende tutti chiedendo scusa. Quando prende la parola Jean-Léonard Touadi afferma che “ siamo venuti da lontano ma ormai questa è la nostra casa dove abbiamo piantato radici”. Esiste solo una razza ed è quella umana” ed inginocchiandosi esprime tutto il suo sconforto che nel 2020 i giovani debbano ancora supplicare giustizia. “Sono ebreo nato in Libia” ci racconta Mayer che con voce pacata tradita dall’ emozione invita la piazza a canalizzare l’avvertibile energia in azione positiva e propositiva. Chiude la manifestazione Aboubakar Soumahoro che viene accolto tra applausi ed entusiasmo. Sottolinea come il grido di dolore di George Floyd in quei interminabili 8.46’ minuti deve essere un monito a tutti noi. Invita a prendere posizione di fronte alle ingiustizie e contro chi artatamente banalizza le discriminazioni che soffocano le nuove generazioni, gli afro-discendenti, le lesbiche e gay o i perseguitati per un credo. “In questi ultimi anni, non si è ascoltato il grido “I can’t breath” di molti esseri umani schiacciati dall’odio e dal peso di leggi razzializzanti che li ha categorizzati e confinati in base al colore della pelle, della provenienza geografica, della religione, dell’orientamento sessuale e del genere. Oggi siamo qui per dire “basta”. #BlackLivesMatter

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