Dall’ideale al reale: cosa hanno significato gli Stati Popolari

Bisogna armarsi della corazza del sapere perché solo la conoscenza è in grado di sintonizzarci con il reale. Non dobbiamo essere uniti per un nemico comune, il leviatano, ma per la stessa ambizione in una comunione di principi e di valori. Non siamo indifferenti al prossimo e tra le cose che accomunano l’essere umano non vi è solo la sofferenza ma anche la capacità di ognuno di coltivare aspirazioni e quindi il desiderio di progredire. Abbiamo distorto il concetto stesso di progresso a favore dell’annientamento dell’altro in una logica per cui l’IO progredisce solo a discapito dell’altro. La vera sfida è recuperare la dimensione comunitaria come luogo corrispondente all’esaltazione dell’Io in un rapporto di reciprocità – cresco solo se cresce la comunità e viceversa -. Bisogna decostruire la narrazione che vuole che si abbia una memoria condivisa perché questo è falso ed è forviante. La memoria è sempre una esperienza individuale, abbiamo semmai una storia condivisa ed è nostra responsabilità conoscerla senza i veli del paternalismo storico o della sua interpretazione ideologica. Lo dobbiamo ai nostri padri che hanno scritta la storia e ai nostri figli per dotarli di strumenti per l’autodeterminazione anziché per la tentazione di autoaffermarsi. 

Per passare dall’ideale al reale serve un moto dell’agire. 

Bisogna implicarsi, esprimersi e quindi assumere posizione. La difesa dell’identità deve tradursi in una posizione di ragionevolezza e non in un pretesto di prevaricazione. L’autentico si esplicita in un distinguo e trova linfa, quindi vita, nell’inebriante rapporto con il reale. 

Il paternalismo involontario deve lasciar spazio ad un agire volontario e consapevole. Dobbiamo metterci nella posizione del medicante “che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”, dobbiamo aver la capacità di ascoltare in cui coniugando le diversità – in una attività di decostruzione di rigide sovrastrutture sociali, e in un approccio di generoso ascolto, unica via per la conoscenza-, ci concediamo in una relazione simmetrica.

 La piazza degli stati popolari è una piazza non omogenea, è una piazza di donne e uomini che, avendo consapevolmente scelto di spogliarsi dai rigidi schemi del pudore, vuole raccontarsi, vuole esprimersi, vuole prendere posizione. Non ci può essere giustizia di genere se non c’è giustizia sociale. Tuona come una denuncia ma inavvertitamente riverbera nella piazza come un monito. Sono un bracciante e con il suo sudore si materializza nei nostri piatti ma come lavoratore resta invisibile ai più. A ben guardare la realtà con le lenti dell’umanità, a mancare in agricoltura non sono le braccia, ma i diritti. La realtà ci dice che sono irreparabilmente invisibili per colpa dei nostri politici, anzi dei nostri governanti, ma perché a loro abbiamo delegato l’onore e l’onore di guidare il nostro bel paese. Siamo complici anche noi quando la legalità non l’assumiamo come statura ma come retorica. Nel periodo di lock-down il distanziamento fisico ci ha interrogato sul distanziamento sociale. Siamo stati sordi alle condizioni dei braccianti metropolitani preferendo dedicare la nostra attenzione “se la pizza che ci ricapitavano a casa era calda piuttosto che guardare alla carne viva di chi ce la portava”- esclama Abou. L’occasione è di quelli memorabili è la piazza San Giovanni viene di nuovo ad essere rimpossessato dai lavoratori. C’è una atmosfera mistica non necessariamente religiosa ed il sole sembra non solo illuminare la piazza ma anche mettere a dura sfida i partecipanti. I presenti sono inamovibile, la causa è più grande. Sono diciannove anni che lavoro con contratti a tempo determinato con la stessa azienda, è sarebbe interessante sentire Iachino su come sia possibile in un paese civile come il nostro, dove ormai abbiamo deciso di barricare dicotomicamente l’alleanza naturale tra il datore di lavoro e il lavoratore. Il vero virus a Taranto non è il covid 19 ma il lavoro. Un silenzio avvolge la piazza dinanzi ad uno struggente grido di dolore. La vera domanda che riecheggia è “Può l’essere umano rispondere in coscienza alla distruzione della ricchezza per privilegiare il profitto?”. Ebbene sì, l’indifferenza a questa doglianza è diventata disuguaglianza strutturale. L’inviolabilità della giustizia deve interrogare la nostra passione, i nostri ideali, la nostra umanità. Irrimediabilmente il cambiamento va trovato in un nuovo modello di sviluppo, lo dobbiamo in onore a chi ha prodotto ricchezza nel nostro paese rischiando il capitale e chi, con il sudore della fronte lo ha permesso. Nella prospettiva di una rigenerata alleanza tra capitale e lavoro, in considerazione della inevitabile transizione ecologica, dobbiamo rinvenire nuovi diritti per uno sviluppo economico coerente e sostenibile. L’indifferenza che è diventata postura deve lasciare spazio ad un percorso condiviso. L’invito degli stati popolari non è una pretesa ma appello per un comune cammino. La pandemia ha messo al centro i corpi e gli invisibili devono tornare ad essere visibili. La vera cultura che manca in questo periodo è la cultura del lavoro che valorizzi tanto il datore che il lavoratore. Non possiamo prescindere dalla questione dei diritti inalienabile dell’uomo. Si susseguono maestranze a cui incolpevolmente ci siamo distratti. Sono gli artigiani della cultura. Sono i fisioterapisti dei nostri sentimenti per non parlare degli operatori della informazione. Il culmine è quando le istanze sono relativi ai diritti civili. Si compie quello che ho sempre fatto fatica ha cogliere ai tempi universitaria, il giusnaturalismo. alcuni diritti, detti inalienabile, non vengono concessi ma vengono riconosciuti  in quanto essere umani e chi li nega non compie un sopruso alla singola persona ma un crimine all’umanità. La nostra è una costituzione che fonda radice non nella preservazione di privilegi ma sulla sacralità della vita, sulla esistenza umana. La piazza diventa meno confidenziale e si innalza è diventa politica “altra politica, alta politica”. Sfilano cittadini senza cittadinanza. Si susseguono interventi che risvegliano una coscienza atrofizzata. Sembra di essere catapultali in una realtà parallele dove ognuno avanza imperterrito in una corsa solitaria. La sensazione è quella per cui ci siamo assuefatti alle catastrofe – guerre, carestie, alluvioni, terremoti ect..- che siamo ormai  imbrigliati in un cinismo che ravvisa un alter ego spropositato. Abbiamo ingrossato cosi tanto le spalle che ormai preferiamo essere giudicati per quello che rappresentiamo anziché essere accettati per quello che siamo. La piazza, gli stati popolari, offrono un’altra prospettiva.

Improvvisamente a palesarsi è che abbiamo anestetizzato i sensori recettive delle emozioni, come forma di autoprotezione, da rendere l’anomalia normale. L’intendimento ha preso posto alla compressione. L’ ostinazione verso il diverso anziché essere idea di valorizzazione della diversità ha distorto gli ideali in una logica di convenienza. È mai possibile che la crisi identitaria coniugato ad una crisi prospettica non trovi più saldi radici in una storia comune, in una esperienza comunitaria? 

È proprio vero che “l’essenziale è invisibile agli occhi dell’uomo”. Abbiamo smesso di desiderare le stesse opportunità ed abbiamo iniziato a bramare gli stessi privilegi? Il sindacalista venuto da chi sa dove ricompone il districato puzzle “Questa piazza ha ragione solo se si declina in un noi….  

La cultura non deve essere adesione ma strumento di autodeterminazione…. La cultura razzializante non può prescindere dall’uomo!!! Non basta desiderare, bisogna voler, bisogna manifestarlo ….L’amore è disinteressato, l’odio no, è molto interessato. Lottiamo per la verità non per opportunismo”.

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