Dalla lettura delle parole sentite delle autrici penso che, ragionevolmente, si possa inequivocabilmente sgomberare dal confronto l’ipotesi che trattasi di un approccio educativo razzializzante e quindi di un giudizio etico valoriale su base etnica. Ma non possiamo non cogliere una attitudine paternalistica in chiave eurocentrica di identificare, alimentando la narrazione, lo straniero come inesorabilmente nero. Voglio altresì pensare che pari indignazione avrebbe riverberato anche in presenza di un bambino con altri tratti somatici non propriamente caucasici. Ma questa evidenza deve solo rappresentare un attenuante e non di certo salva l’approccio negligente di chi, avendo a cuore ed essendosi assunto una precisa responsabilità educativa, non ha considerato gli effetti dei loro buoni propositi. La questione è talmente tanto complesso che sarebbe ingeneroso attribuire la responsabilità a chi, devotamente, si impegna per consolidare una cultura inclusiva ed una educazione di qualità ai nostri figli ma l’indignazione, quella non pretestuosa, che si è sollevata, non deve essere letta come scredito del loro lavoro. A conferma di quanto da loro detto: “i bambini per fortuna non hanno stereotipi”: peccherebbero di superbia relativizzando la loro missione educativa riducendola al mero “metodo del gesto grafico per l’apprendimento della scrittura e dall’altra l’acquisizione della strumentalità di base letto-scrittura “al fine agevolare l’apprendimento ed il protagonismo dei bambini non italofoni. Bisogna considerare tutti i bambini e l’esercizio del loro potenziale e libertà in tutti le sfere della loro vita, e che non è impermeabile al contesto in cui vivono. L’ammissione di aver peccato di ingenuità inoltre è mal posto perché retoricamente rimanda il problema ad altri – questo lo trovo in armonia con la tendenza dei nostri tempi – ma la dedizione e l’implicazione che si evince dalle loro parole fa presagire, che dopo la repentina decisione del gruppo editoriale di mettere un punto alla vignetta incriminata ritirandola, a bocce ferme, nella comune condivisione di una costruzione di una narrativa che contempli l’articolato mondo della diversità e la responsabilità educativa, si possa iniziare un percorso di confronto che aiuti a considerare l’evoluzione dei loro significati e del loro senso, rispetto al contesto. La lingua è viva e in continua mutazione cosi come la sua straordinaria qualità di evocare e/o sollecitare immaginazione che non possiamo sottrarci dalla sua rappresentazione, dalla scelta di un linguaggio preciso (non neutrale) piuttosto che dalle parole che si decidono di utilizzare. Il comune impegno potrebbe essere di riportare la lingua ad avere una posizione centrale nelle relazioni e nei processi educativi ad appannaggio del mezzo e/o dal metodo. Ricordo le lotte intraprese dai movimenti civili per una nuova narrazione dell’Africa troppe volte rappresentate dall’espressione di un bambino affamato riducendo cosi la complessità di un continente e contribuendo a cerare un imaginario collettivo distorto. Le organizzazioni umanitarie, come le autrici di questa rappresentazione, adducono al loro favore il fatto che partano da una realtà senza assumere la responsabilità della rappresentazione che ne fanno. Oggi molte organizzazioni umanitarie hanno capito e modificato la loro narrazione e l’augurio è che anche la casa editrice accolga questa esigenza. Penso inoltre che se dal ruolo di insegnante, con cui hanno scritto la nota esplicativa, rivestissero i panni di autrice, l’occasione sia propizia per un reale confronto, franco, sincero ed allargato con chi non testimonia la diversità raccontandola ma la diversità la vive tutti i giorni. Ricordo la testimonianza di ragazze e ragazzi che quando a scuola dovevano leggere “sono italiano” pure essendo corrispondente di un loro sentire avevano l’imbarazzo della reazione dei compagni. Ragazzi nati e cresciuti in Italia che non vengono riconosciuti italiani per il loro coloro della pelle. Giovane e giovani vessati dall’apparente complimento “quanto parli bene l’Italiano”. La difficoltà di orientarsi intellettualmente nella iconografia prevalente. Bambine e bambini che crescono con un conflitto identitario che non parte da loro ma da sollecitazione esterne. Nere e neri chi si sentono già con un destino segnato. Dalle insegnante dobbiamo però preservare l’umanità con cui hanno voluto dare dimora alle legittime aspirazioni dei quei bambini, ormai una realtà importante nelle nostre scuole, nuovi arrivati in Italia che desiderano apprendere la lingua per autodeterminarsi e per interagire. Penso che questo sia il loro metro di giudizio e penso che le nostre speranze nella scuola non siano mal poste. Dall’indignazione passiamo all’educazione partecipata e coinvolgente.
Noi di Black Post ci mettiamo a disposizione ad arricchire il confronto partendo non da una presunzione ma dalla consapevolezza che #insiemesipuòinsiemeèpiùbello.