Spero di non incappare nel fraintendimento di essere esperto di moda e/o Costume&Società, e chi mi conosce può ben testimoniarlo.
La chiave di lettura del presente lavoro, cioè il mio intendimento, più che un approfondimento per gli esperti specializzati sull’evoluzione della moda, e quindi le implicazioni e ripercussioni sui costumi, è un tentativo di desumere una relazione, solo apparentemente contraddittoria, tra vari significati, inteso come espressione dell’individualità e senso di omologazione (della moda).
Moda come strumento di affermazione del SE’ e non come conferimento del SE’!
Quando arrivai in Italia, nel 1996, ricordo che era in voga la moda etnica, l’esotico.
Sembrava che la moda avesse colto l’irrimediabile contemporaneità dei tempi e cioè, l’affievolimento progressivo del concetto tradizionale di frontiera e di confini, siano essi geografici o culturali. Sette anni prima, nell’89’ era caduto, non solo simbolicamente, un muro che esprimeva sia la divisione di un Paese che di un ordine mondiale. La curiosità era quasi palpabile, sempre più liberi viaggiatori – cittadini del mondo – sviluppavano un’idea di libertà che approdava in un desiderio ossessivo di distinguersi e di affermarsi, soggetti attivi e protagonisti del proprio destino. La capacità di immedesimarsi con i popoli più lontani era alta, proprio in questo periodo nascono e si strutturano organizzazioni di volontari ad alta implicazione civica come ad esempio Emergency – Milano ‘94.
Il futuro allora non spaventava, anzi, in molti vi riponevano grandi speranze.
Ricordo quelle gonne svolazzanti stile gipsy che pur nascondendo le forme della donna, le conferivano allo stesso tempo una profonda sensualità che ne esaltava la bellezza custodita nelle movenze e non nelle forme. Sembrava come se la moda stessa suscitasse e provocasse nelle persone la complessità del mondo, in un contesto impregnato dal concetto rousseauiano “LA MIA LIBERTA’ INIZIA DOVE FINISCE LA TUA”, in cui il limite rappresentava un esercizio consapevole della propria libertà anziché la sua mortificazione.
Oggi invece la fragilità dell’essere si è trasformata in un desiderio di omologazione diventato anche misura della personalità stessa, in cui la moda più che vestirci, ci sveste, ma ci abbiglia di personalità. Da un look naif siamo passati ad un look minimal, l’irrequietezza degli ultimi anni, in cui l’individuo avverte l’altro come un “homo homini lupus” incoraggia le differenziazioni discriminatorie, anche
se non sempre esteticamente rilevabili, perciò una differenziazione asimmetrica che diventa giudizio di valore.
L’apparente contraddizione, di cui sopra, si esplicita dal passaggio rappresentato da una parte dal desiderio del singolo di distinguersi come sintomatico di affermazione del SE’ – essere appartenente ad una comunità complessiva, complessa ed inclusiva – e dall’altra come componente di quello che potremmo definire una sfumatura del SE’ a favore di una comunità con contorni più definibili e quindi immediatamente identificabile.
Il quesito storico della sociologia contemporanea – se è il singolo che crea il contesto o viceversa e quanto l’agire del singolo sia libero o condizionato da entità a lui esterne – è più che mai attuale.
La moda inoltre, oggi come ieri, ha conservato la sua prerogativa che ha da sempre rivendicato di anticipatrice e “metronomo” dei tempi, di internazionalizzazione, ma ha probabilmente sbilanciato l’equilibro a favore del gruppo a discapito dell’individualismo. Molti di voi, che avete scelto di leggermi, avete tanti tratti comuni quanti coloro che decideranno di non leggermi.
In un contesto siffatto e che ho molto semplificato (spero non eccessivamente banalizzato) si introduce quello che definisco “la rivoluzione silenziosa di IKEA”.
In un contesto dove il SÉ viene sfumato a favore della definizione del gruppo di appartenenza, è sempre più facile vedere omologazioni di gruppi distribuiti in zone geografiche diverse oltre al sorgere di incomprensioni tra persone che abitano zone geografiche comuni.
Siamo altresì soliti accostare al termine di rivoluzione, una visione plastica di rottura che si esplicita attraverso uno strappo in cui sono ben distinguibili le parti ingaggiate, ma in realtà alcune rivoluzioni avvengono quasi sottovoce, solitamente sono quelle più sconvolgenti perché meno percepite e sono le più durature. In un disorientamento generale in cui ritornano le frontiere e in cui le diversità si traducono in un minus anziché in un arricchimento si introduce la “rivoluzione silenziosa di IKEA”
La libertà di ciascuno che si esplicitava negli anni del mio arrivo in Italia in un desiderio di distinguersi, lascia spazio all’uniformazione in cui non ci affidiamo più – per mancanza di fiducia – agli altri, ma sempre più deleghiamo le nostre presunte scelte e/o indecisioni.
Abbiamo subordinato il concetto di utilità con quello della funzionalità.
Ad esempio, se in politica ci soffermassimo su ciò che ci muove a votare, potremmo capire la differenza tra affidarsi e delegare. L’atto consapevole di affidarsi ha in sè un grado di impegno e di implicazione emotiva che potremmo quasi definire come un investimento del SE’ e in cui, indipendentemente dall’esito, ci sentiamo coinvolti. Quando invece deleghiamo non vi è lo stesso grado di coinvolgimento emotivo e soprattutto manca l’implicazione del sé, inoltre siamo strettamente legati all’esito. Se le cose vanno bene abbiamo avuto una ottima intuizione ed invece se le cose vanno male, la colpa è del delegato che ha disatteso il mandato.
“La delega non presuppone, quindi, nessun tipo di rapporto di fiducia!”.
Per carattere ho la fortuna di essere stato considerato da molti una persona a cui concedere l’onore di un’amicizia. La mia gratitudine per costoro non sempre è stata ripagata da una capacità di serbare relazioni, ma se costoro non mi avessero concesso la loro fiducia non sarei l’uomo che sono oggi!. Questo onore mi ha portato ad entrare in molte case e a vivere “familiarità” diverse.
Esperienze diverse… discussioni diverse… incomprensioni diverse…tutte arredate da IKEA: che sembra essere divenuta il denominatore comune delle diversità contemporanee ed essere contemporaneamente la sua CORNICE.
IKEA sembra quindi l’eletta cornice dell’umanità. La sua neutralità è tale che nessun si sente escluso, al di là della convenienza economica – componente non indifferente rispetto al successo del brand – offre un arredamento componibile che risponde a tutte le esigenze ed è studiata per tutti i gusti, tutti gli spazi. Sta uniformando le abitudini, omologando gli arredi e chissà che un giorno, ci accorgeremo di come le nostre scelte estetiche siano simili tra loro, anche più di quanto le nostre tradizioni risultino diverse.
Plasmando ed uniformando comportamenti comuni, IKEA è divenuto non solo un simbolo ma anche creatore di “costume”. In un esercizio di reminiscenza economica ricordo l’indice del “Big Mac” che, a mio avviso, potrebbe essere tranquillamente sostituito dall’indice IKEA.
to be continued…