Dopo una petizione online che ha raccolto migliaia di firme, la futura stazione della metro C che collegherà San Giovanni e Fori Imperiali a Roma, verrà intitolata alla memoria di Giorgio Marincola, il primo partigiano nero d’Italia, e non come originariamente previsto seguendo le vie dove insisterà la struttura, all’Amba Aradam, l’altopiano montuoso al nord dell’Etiopia, dove durante la campagna fascista verso il continente nero, più di 20.000 etiopi vennero massacrati dai gas e dai bombardamenti della guerra coloniale. Ad annunciarlo è stata la prima cittadina di Roma, Virginia Raggi , ricordando che sia un bel momento in cui si ricorda una parte della nostra storia italiana dove un giovane, giovanissimo partigiano, appunto Marincola, ha sacrificato la sua vita per combattere contro il fascismo.
L’operazione e l’iter formalizzato, dalla città di Roma, hanno uno scopo e una doppia valenza: l’omaggio appunto alla Resistenza e alla lotta al nazifascismo e la cancellazione di un nome simbolo del colonialismo italiano e delle stragi compiute dal regime fascista in Etiopia, dove fin oggi in una Nazione dove i conti con il passato non sono stati mai fatti e conclusi. C’è però, chi difende l’iniziativa del Campidoglio, chi vuole conservare il vecchio nome scelto per la stazione della metro C di Roma, ‘Amba Aradam‘, affinché “anche gli errori e le atrocità non vengano dimenticate”. Ma anche chi rivendica che “la storia non si debba cambiare”, quasi ‘nostalgico’ del periodo coloniale di matrice fascista.
Una storia che quasi nessuno conosce, anche chi difende il nome ‘Amba Aradam’ e chi la vuole intitolare a Marincola. Amba Radam è un luogo montuoso a nord della capitale di Addis Abeba, quando nel 1936, le truppe del maresciallo Badoglio e l’aviazione italiana massacrarono più di 20mila etiopi, compresi civili, donne e bambini, usando gas vietati già allora dalle convenzioni internazionali, come l’iprite. Altre centinaia persero la vita tre anni più tardi, all’interno di una profonda grotta dell’area, con le truppe fasciste che fecero uso di gas e lanciafiamme contro la resistenza etiope, per poi murare vivi gli ultimi sopravvissuti. Durante tale battaglia le truppe italiane erano alleate con alcune tribù locali ma, a seconda delle trattative in corso, alcune di queste si alleavano a loro volta con il nemico (gli etiopi), per poi riaffiancare i soldati italiani, e nello scontro si creò una tale confusione per cui nessuno alla fine era in grado di capire contro chi combatteva. Il nome del monte e della battaglia, attraverso un fenomeno fonetico, hanno dato luogo a un’opportunità ed entrata nell’uso comune del termine: ambaradam. Essa indica un insieme disordinato di elementi o una situazione di grande confusione.
Sulle violenze in Etiopia sono stati scritti tantissimi saggi e libri, firmati da fior di antropologi e massimi esponenti del mondo accademico italiano. Documenti che hanno sconfessato il mito degli «Italiani brava gente», nato già all’epoca delle prime guerre coloniali del 1885. Un falso storico. Sì, in Etiopia si sono costruite strade e scuole: le prime necessarie per i trasporti e gli autocarri, le seconde riservate inizialmente solo ai bianchi italiani come nel sistema dell’Apartheid in Sud Africa. Un colonialismo breve, estremamente violento, conclusosi con un nulla di fatto. Oggi pesa nel conto delle accise sulla benzine, destinate a ripagare quella spedizione. L’Etiopia non ha mai capito il perché di quella guerra. Non è stata una colonizzazione, bensì un’invasione crudele, sprezzante di tutti i trattati internazionali. A distanza di oltre 84 anni è ancora inspiegabilmente ricordata dalla vie di alcune città italiane. Da Roma a Genova, c’è “via dell’Amba Aradam”. Che oggi deve essere ricordata come memoria e non cancellata! Una testimonianza stradale di un revisionismo persistente, per tenere alta la guardia su cosa sia stato combinato in Etiopia e per riflettere oggi sui temi di attualità che riguardano specialmente l’immigrazione.