Nel blocco 108 del cimitero Flaminio di Roma, sotto croci di legno con una piccola targa, sono stati messi i feti degli aborti terapeutici, sono sepolti senza il consenso e ad insaputa di chi ha dovuto affrontare l’interruzione di una gravidanza, donne che sono sconvolte e che in questo blocco hanno trovato il loro nome e cognome scritto sulle croci bianche, donne che non hanno dato il permesso e non sapevano neanche che fine avesse fatto il feto, perché nel chiedere quale fosse stata la fine del feto si è sentita dire “lascia perdere” “non lo so”, questa è l’ennesima violenza istituzionale, si è violentato il diritto a la privacy. “Nel momento in cui firmai tutti i fogli relativi alla mia interruzione terapeutica di gravidanza, mi chiesero: “Vuole procedere lei con esequie e sepoltura? ” Risposi che non volevo procedere. Dopo circa 7 mesi ritirai il referto istologico… e decido di contattare la camera mortuaria”. Dopo avere fornito il suo nome e cognome la donna scopre che pur non avendo dato nessun consenso il feto avrà sepoltura. “Mi dissero al telefono: ‘stia tranquilla anche se lei non ha firmato per la sepoltura, il feto verrà comunque seppellito per beneficenza: avrà un suo posto con una sua croce e lo troverà con il suo nome’“ racconta M.L, scoprendo appunto che sulla croce c’è il suo di nome essendo il figlio “nato morto e dunque mai registrato”
Sono donne violentate simbolicamente con la sconvolgente visione del proprio nome su una tomba.
Grazie a M.L la donna che ha condiviso attraverso i social il suo dramma si è riusciti a risalire anche ad altre donne nella stessa situazione, dopo di che altre 30 donne hanno trovato i loro nomi sulle croci del cimitero Flaminio. L’associazione “Differenza Donna” sta organizzando una class action, un’azione legale collettiva e chiedono di essere ricevute dal ministro Speranza e l’amministratore unico di Ama Stefano Aghis. Confermando che non è stato un caso isolato quello di M.L., centinaia di donne hanno scritto alla mail che l’avvocata Cathy La Torre ha aperto per il caso tutelaliberascelta@gmail.com per chi vuole sommarsi a l’azione.
La legge 194 tutela alle donne ad esercitare il loro diritto, di essere accolte con rispetto, dignità e senza la divulgazione dei suoi dati sensibili, garantendo il tratto laico e senza pregiudizi di nessun genere o almeno così dovrebbe essere, questo vuol dire anche che nessuno deve impedire a una donna di portare avanti un’ interruzione della gravidanza, In Italia l’interruzione della gravidanza o dell’aborto come ordinariamente viene chiamata questa procedura è del tutto regolata e non ha conseguenze legali per le donne che richiedono un aborto volontario. Deve soltanto rispettare le condizioni stipulate dalla legge: essere fatto entro i primi 90 giorni del concepimento e senza il vincolo di avere problemi legati alla salute. Per richiederlo è sufficiente che la donna manifesti le ragioni che la collocano in difficoltà per portare a termine la gestazione. Esiste anche il così chiamato aborto terapeutico che può avvenire anche dopo i 90 giorni se la donna è in pericolo di vita dovuto alla gravidanza o alla possibilità di un parto, ritenuti validi anche anomalie o malformazioni del feto che comportano pericolo fisico o psichico della donna.
La legge prevede che l’unica a decidere se abortire o no è la stessa donna, il padre e altri attori compiono un ruolo marginale che potrebbe avere importanza solo se la donna desidera coinvolgerli, questo in teoria. Purtroppo nella pratica ci troviamo con alcuni operatori sanitari, organi di gestione comunale, assistenti sociali, associazioni religiose, eccetera eccetera, che per ragioni personali e di natura morale si ergono ad obbiettori di coscienza, gli negano di fare la procedura, spingono la donna ad ottenere il “permesso” del marito, colpevolizzano o si prendono carico di decisioni che non corrispondono a loro. Come nel caso degli embrioni seppelliti al cimitero, si sono presi provvedimenti per realizzare la loro sepoltura senza il consenso della donna, l’unica che può decidere se darle o non una sepoltura.
Qui devono rispondere diversi organi di servizio; ospedali, comuni, cimiteri. Marta Bonafoni, la capogruppo in Regione Lazio della Lista Civica Zingaretti ha detto a riguardo: “Il Garante per la Privacy faccia luce… si deve spingere il governo a rivedere il regolamento della polizia mortuaria del 1990… ho già proposto alla maggioranza di risalire a tutti i passaggi dal cimitero in su… scopriremo che ci sono delle scelte discrezionali e una’ambiguità che vive dell’ideologia” ha dichiarato la consigliera che insieme alla deputata Leu, Rossella Muroni presenta un’interrogazione parlamentare per fare chiarezza. Una dimostrazione sulle scelte discrezionali e le ambiguità di cui parla Bonafoni, si può leggere sul giornale Avvenire dove Antonella Marinai scrive: “Insieme al diritto alla privacy (ma non all’aborto che non è un diritto ma “una tragedia in forma di prestazione sanitaria regolata”) deve essere riconosciuta la dignità del feto”.