Kizito Mihigo: L’uomo e il personaggio si presero per mano e andarono insieme incontro alla sera

Quella che mi accingo a raccontavi è innanzitutto la storia di un uomo, prima ancora che di un destino beffardo. È la storia di un uomo dipartito prematuramente, di un testimone del tempo che ha raggiunto trasversalmente l’affetto dei Ruandesi e non, in tutto il mondo. È la storia della sconfitta dello Stato, nella sua accezione generale, perché nessuno dovrebbe morire sotto sua tutela.

È una storia che per dimensione ed importanza rischia di alimentare una cultura del sospetto in un contesto delicato che è rimesso alla prova sotto il peso dell’insostenibile incertezza di quanto realmente accaduto. È una storia che rischia di svilire i risultati ragguardevoli raggiunti che fanno sì che il Ruanda: sia un esempio e sia da esempio di come uno stato possa rispondere alla complessità delle sfide contemporanee – si veda la questione mondiale delle migrazioni e/o dello sviluppo economico sostenibile.

Considerando inoltre che l’uso del linguaggio diretto nella cultura ruandese non è di uso corrente, cosa quest’ultima che ne fa una delle lingue più delicate ed evocative del mondo, e partendo dall’assunto che le parole hanno comunque una grande importanza e non sono mai neutrali, possiamo capire la complessità di questa storia.

È la storia di un testimone di fede che attraverso le sue canzoni ha aiutato i devoti, come diceva Sant’Agostino, a pregare due volte. Nella lingua ruandese, morire, si traduce con “rispondere al Signore” e citando una sua canzone, egli affermava che la morte è la disgrazia più orrenda che può capitare ad un uomo ma allo stesso tempo è l’unica via per ricongiungersi al Signore, anche se l’accesso ad essa dovrebbe essere garantito solo dal richiamo di quest’ultimo.

È la storia di una Repubblica relativamente nuova e che come tutte le società nuove, trova definizione non sono solo nelle gesta di chi ha responsabilità governative ma anche delle persone popolari che contribuiscono a creare un sentimento comunitario.

L’eredità dell’orrore del genocidio è stato fronteggiato con una duplice strategia: da una parte attraverso l’edificazione di strutture della memoria che siano da monito dell’orrore perpetrato e dall’altra con politiche conciliative con il coinvolgimento anche delle Diaspore. Ma inevitabilmente le ferite rimangono e per quanto, parafrasando Cohen, è dalle crepe che penetra la luce alcune cose rimangono difficili per il dolore che resta.

Superstite del genocidio del 1994 la storia di Kizito Mihigo è caratterizzata dalla sua grande fede le cui opere liturgiche ne sono la testimonianza, apprezzabili non solo in Ruanda, e per la sua tenacia al perseguimento della riconciliazione in un contesto come quello ruandese dove ancora permangono molte contraddizione.

Morto all’età di 38 anni l’eco della sua dipartita ha riecheggiato nel mondo intero ed il fatto che le autorità locali, nell’immediato, non hanno fornito spiegazioni ha alimentato sospetti e dietrologie circa l’accaduto. In sintesi i suoi guai giudiziari con la le autorità ruandese iniziano con la pubblicazione della canzone IGISOBANURO CY URUPFU, in cui all’ovvia condanna del genocidio perpetrato dagli Hutu nei confronti dei tutsi, egli denuncia l’efferatezza di cui furono vittime anche gli Hutu. Con spirito messianico improntato a un senso profondamente religioso dell’avvenire indica come via alla riconciliazione il perdono, non banalmente inteso come superamento degli eventi passati ma come desiderio di ricucire le relazioni sociali ed umane su cui costruire una nuova identità comunitaria. Costretto alla prigionia per il testo della canzone, considerata eversiva al potere costituito, grazie all’istituto clemenziale di grazia presidenziale viene rilasciato.

Dalla sua messa in libertà inizia una storia opaca per cui si speri che non sia solo la storia a restituirci la verità ma di cui confidiamo in una verità giudiziaria. Al di là del legittimo dubbio circa la prima detenzione ancor meno chiaro appaiono essere le motivazioni della sua ultima detenzione che di fatto è una condanna a morte.

Da fonti non ufficiali la versione più accreditata e che egli abbia tentato di varcare clandestinamente il confine ruandese, tentativo che gli valsa l’arresto. Senza avvalorare congetture che vorrebbero che un fervente cattolico si sia suicidato e/o sia stato una esecuzione per volere del presidente della Repubblica, quello che lascia sconcerto è come una icona possa perdere la vita affidato allo stato e ci auguriamo che da questa storia possa emergere le condizioni di detenzioni in Ruanda.

Quello che ci resta di Kizito Mihigo è il seme di speranza che ha impiantato nei cuori e nelle menti che ha germogliato in un rinnovato interessamento circa il delicato processo di riconciliazione in Ruanda e la responsabilità di tutti noi è di onorarlo non dimenticandolo.

Menu