Erano stati portati a Napoli per la Mostra delle Terre Italiane d’Oltremare, voluta dal fascismo proprio per mostrare al mondo le proprie conquiste. Erano tutti africani, regolarmente inquadrati come corpo militare nelle forze italiane in Africa, ma anche donne, bambini.
Insomma, persone trasportate in Italia per “far percepire la diversità” e conseguentemente far sentire agli italiani il “senso del proprio dominio e superiorità”. Una storia, ancora poco conosciuta, di africani che scapparono dalle prigioni fasciste, grazie all’aiuto degli italiani, per poi unirsi a loro e morire per la liberazione dell’Italia.
Stiamo parlando dei partigiani della “Banda Mario”, uno dei primi gruppi della resistenza contro l’occupazione nazifascista. Una rarità nell’Italia di allora. La storia dei partigiani neri della Banda Mario comincia poco prima dell’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Il governo fascista vuole realizzare una grande mostra dedicata ai Territori d’Oltremare (MTO) per dare lustro alla propria immagine di potenza coloniale e in un certo senso esibire la sua supremazia nel Corno d’Africa.
La sede prescelta è Napoli. Nel villaggio coloniale saranno ricostruiti gli habitat ritenuti più tipici dei paesi conquistati e veniva richiesta la presenza di sudditi coloniali figuranti, anche loro marcatamente “tipici”. Per allestire lo zoo umano, dal corno d’Africa arrivarono una sessantina di etiopi, somali, eritrei e una cinquantina di agenti coloniali (ascari) incaricati di vigilare su di loro.
Le leggi razziali del 1938 erano già state approvate e bisognava dunque limitare nel modo più assoluto il movimento di questa truppa, per evitare contatti con gli italiani autoctoni che andassero oltre la visione espositiva. Nel corso dell’800 e della prima parte del ‘900 le esposizioni coloniali erano una pratica diffusa in Europa e in Nord America. Servivano a presentare al pubblico i risultati della missione civilizzatrice della civiltà europea.
Conclusa l’esibizione i figuranti avrebbero dovuto rientrare in Africa, ma il 10 giugno 1940, un mese dopo l’apertura della MTO, l’Italia entra in guerra e la mostra viene sospesa. Gli africani rimangono sostanzialmente internati nel villaggio che non è attrezzato per affrontare l’inverno. Non possono uscire, non possono fare nulla. Soffrono, costano e non producono. L’unica attività loro consentita è recitare. Anche se c’è la guerra, anzi proprio perché c’è la guerra, la macchina della propaganda fascista non può fermarsi. Ma per celebrare l’espansione coloniale e legittimare le politiche razziali non era più possibile girare in Africa. Lo si faceva in Italia, fingendo di essere altrove e i sudditi coloniali rivelano in questa occasione la propria utilità.
Su decisione del ministero dell’Africa Italiana, il gruppo viene trasferito nelle Marche, in provincia di Macerata, in un edificio nobiliare che stava cadendo a pezzi: Villa Spada. Qui cominciò per loro una seconda stagione, tutto sommato meno dura. A differenza di quel che accadeva a Napoli qui avevano contatti con la gente del luogo: contadini, funzionari dell’anagrafe, personale medico dell’ospedale. Insomma un alloggio per gli africani, costretti a vivere nelle scuderie in un regime di semilibertà che permetteva loro di andare a comprare merci nei paesi vicini, ma con l’obbligo di rientro serale.
Gli eventi si susseguono tra la destituzione di Benito Mussolini e la proclamazione dell’armistizio del 8 settembre, saranno tre coraggiosi etiopi a dare il via all’esperienza dei “partigiani stranieri” fuggendo da Villa Spada per unirsi a un gruppo di partigiani della resistenza marchigiana, operante alle pendici del Monte San Vicino, sotto la guida dell’ex prigioniero istriano Mario Depangher.
Molti italiani che hanno partecipato alla Banda Mario erano stati comunque cresciuti ed educati secondo il fascismo, quindi con un determinato atteggiamento verso il diverso, verso lo straniero, eppure non ebbero nessuna difficoltà, grazie all’empatia, a riconoscere in quegli etiopi, un fratello e un compagno di lotta. La Banda Mario, comprendeva persone di svariate nazionalità, in essa coesistevano lingue e mentalità diverse. Era una formazione politicizzata e internazionalista e tenere insieme le differenze fu una grande prova e una grande sfida.
Fra questi partigiani neri c’era uno che si chiamava Carlo Abbamagal ma per i compagni era Carlo, anzi Carletto per via della bassa statura e della corporatura esile. Etiope, diventato partigiano quasi per caso insieme ad altri compagni eritrei e somali che combatterono i nazisti sui monti di Macerata. Morì il 24 novembre 1943 falciato dal mitra di un nazista, per difendere il comandante della brigata. Dopo la Liberazione, la salma venne trasportata a San Severino e tumulata, insieme ad altri stranieri, nella cripta di una confraternita religiosa, senza lasciare tracce nei registri del cimitero. Il pericolo dei “partigiani africani di Villa Spada” fu riconosciuto anche dalla Repubblica sociale italiana, lo stato fascista nato nell’Italia del Nord dopo l’armistizio. Il ministero dell’Interno, infatti, scrisse dell’importanza di trasferire immediatamente il gruppo, ricordando che molti stranieri si erano dati alla macchia con i partigiani.
Oggi, sul luogo, una targa ricorda l’impegno di “uomini e donne, provenienti da tutto il mondo” e l’atto eroico di Carlo Abbamagal “caduto per la libertà d’Italia e d’Europa”.
Grazie partigiano Carlo Abbamagal!
Questo è il fiore del partigiano morto per la libertà!