Resilienza comunitaria

“La vita sarebbe così bella se non ci fosse l’uomo a complicarla”, recita un antico adagio burkinabé.

Dopo aver sormontato innumerevoli sfide, ad un passo dall’orizzonte tanto auspicato e fortemente desiderato, prima dell’ultimo miglio hanno dovuto ricredersi. Una nuova sfida di vita era lì ad attenderli. Dopo il deserto ed il mare, una montagna di nuovi problemi stava lì ad accoglierli. Il miraggio di emanciparsi da uno stato di bisogni e di necessità si sarebbe confrontato di li a poco con una nuova aspirazione: quella di autodeterminarsi da una condizione di invisibilità strutturale. Nella ricorrenza della giornata del lavoratore, nella riunione dei delegati delle braccianti e braccianti di Borgo Mezzanone, riecheggia più volte la parola dignità. Bramano una esistenza dignitosa, che sta sia nell’abitare un luogo degno e nella dignità che è insita nel lavoro, come negli ideali dei padri costituenti. 

La precarietà scandisce le loro giornate ed in ognuna di esse si è imparato a confrontarsi con la flessibilità lavorativa, data dalla stagionalità del lavoro e da una filiera agro-alimentare asimmetrica sbilanciata a danni di agricoltori e braccianti. Sulla carne viva di duro lavoro hanno imparato però, a proprie spese, a discernere e riconoscere la prevaricazione della forza brutta di un datore di lavoro che li precarizza e li inferiorizza.

Dimoranti di un territorio, l’insediamento spontaneo di “Toretta Antonacci”, che non è solo un riferimento fisico ma un luogo di relazione e di condivisione di ideali e problemi, in questo contesto hanno trovato un nuovo slancio per un comune cammino di esercizio del diritto e dovere di cittadinanza. Da una condizione di sospensione decidono di recuperare un protagonismo negato ed esercitarlo in una dimensione di leadership collettiva.

È un processo ineludibile, irreversibile, proprio perché nasce dalle viscere di persone prima ignorate, ferite e dopo abbandonate al loro beffardo destino.   

Nella odierna società “signorile di massa” che ha anestetizzato il moto che ispirava e traduceva la partecipazione politica anche in gesti comunitari e collettivi come quella di uno sciopero e/o di una manifestazione, donne e uomini decidono di reagire ad un destino spietato che ai più sembra inevitabile e con rinnovato entusiasmo e decidono di manifestare e scioperare.

L’insperabile si avvera, anche i cosiddetti clandestini scioperano. Prendono posizione non solo a difesa di una condizione etnicizzante che li privi della dignità di braccianti agricoli, ma per prendere le parti ed esprimere un dissenso ad un sistema discriminatorio che oltre ad aver arricchito i soliti noti ha barbaramente impoverito una intera generazione ed una categoria sociali della possibilità di sperare un mondo migliore. Non è solo una presa di posizione per rivendicare una emersione da uno stato di invisibilità istituzionalizzato ma è un moto di solidarizzazione con agricoltori e braccianti di tutte le nazionalità, un intero comparto abbruttito da una forza smisurato della “GDO” a cui la politica e le associazione di categorie non hanno saputo sbilanciare.

Dopo anni di depauperamento della politica che li ha relegati all’invisibilità, in cui non hanno diritto di accesso ai servizi primari, in cui sono esclusi dal sistema di vaccinazione, il 18 maggio armati di speranza donne e uomini si paleseranno per riappropriandosi del diritto di parola e per tracciare un solco per una rinnovata umanità.

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