Il luogo della parola: cos’è e perché serve ascoltare la voce di chi soffre

Il concetto di “luogo della parola” è diventato popolare nei dibattiti sociali brasiliani alcuni anni fa. Da allora, è stato utilizzato da diversi attivisti dei movimenti sociali. Djamila Ribeiro, filosofa, femminista nera, ha lanciato il concetto nel libro omonimo, nel 2017 (traddotto in italiano dalla casa editrice Capovolte). In esso, Djamila presenta una panoramica storica delle voci che sono state storicamente interrotte.

Analizzando la popolazione brasiliana, vediamo che le minoranze e i gruppi emarginati nella società occupano ancora pochi spazi politici, essendo meno rappresentate e, di conseguenza, meno ascoltate. È in questo momento che entra in gioco il concetto di “luogo della parola”. In questa prospettiva, il concetto risiede nell’articolazione di diversi punti di analisi: a) chi (può) parlare; b) di cosa si sta parlando; c) per chi; e d) con quali interessi.

Djamila spiega che questa gerarchia strutturata nella società fa sì che le produzioni intellettuali, la conoscenza e le voci di questi gruppi siano trattate in modo inferiore, facendo sì che le condizioni strutturali li mantengano in un luogo silenzioso. Pertanto, l’idea del luogo della parola mira a offrire visibilità a soggetti i cui pensieri sono stati ignorati per molto tempo. Quando si tratta di questioni specifiche di un gruppo, come il razzismo e il maschilismo, i neri e le donne hanno, rispettivamente, un “luogo di parola”. Cioè, possono offrire una visione che i bianchi e gli uomini potrebbero non avere perché hanno evidenziato l’esperienza con i loro corpi (Santos, 2019).

Djamila Ribeiro rifiuta la tesi secondo cui il femminismo nero opera divisioni nel movimento delle donne e scommette sullo studio intersezionale delle relazioni di razza, classe e genere come un modo per comprendere il posto sociale occupato dal corpo povero, nero, femminile, indigeno, LGBTQI+. In questo senso, “luogo della parola” consente di guardare alle esperienze dei corpi subalterni, inteso come luogo sociale che attraversa le esperienze collettivizzate di questi corpi.

Nel libro, Djamila riconosce che il “luogo della parola” è oggetto di controversie antagoniste, come ricorda Ginea Santos: “C’è chi considera ‘luogo della parola’ come l’espressione di voci individuali, senza alcun riferimento a esperienze collettive condivise dai gruppi. C’è anche chi sostiene un ‘luogo della parola’ come costruzione sociale di collettivi che rivendicano umanità storicamente e sistematicamente negate, localizzando segni di oppressione nelle esperienze vissute.”

Se, da un lato, il luogo della parola riconosce i contesti discorsivi in ​​cui le persone sono iscritte, dall’altro, rappresentazione significa la possibilità di pensare criticamente a questo luogo, riconoscendo in esso confini che devono essere rispettati. Questa rappresentatività è delimitata dai confini dell’esperienza, poiché è impossibile assumere il discorso dell’altro senza usurpare una legittimità identitaria.

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