Io sono nata in Messico ma ho la cittadinanza italiana, ottenuta perché sposata con un italiano. Sono pertanto una cittadina italiana, nonostante continui sovente a sentirmi straniera. Anche i miei figli sono italiani: perché il loro papà è un italiano di nascita.
Più volte ho chiesto a mio marito se i nostri figli saranno trattati come italiani o italiani di seconda generazione o cos’altro ancora. Lui non ha dubbi: sono italiani, così si sentono e così sono percepiti. Gli ho anche chiesto di immaginarsi cosa succederebbe se lui, invece di essere un giovane uomo della bergamasca, fosse, per esempio, un camerunense, e se in questo caso i suoi figli sarebbero considerati sempre e comunque italiani, o verrebbero come minimo definiti stranieri di seconda generazione o peggio ancora. Mi rendo conto di quanto le mie domande fossero tendenziose o addirittura capziose, ma è che volevo scuoterlo e magari farlo riflettere sulle problematiche che affrontano i ragazzi nati o cresciuti in territorio italiano, ma, come i nostri, figli di stranieri. La mia intenzione era insomma indurlo a una maggiore consapevolezza. E lui ha infatti esitato nel rispondermi. Poi, nel mezzo di un titubante sospiro, ha sussurrato che non importa da dove arrivino o se siano nati qui in Italia: “Sono italiani, italiani come noi”.
Ma la realtà è diversa. È piuttosto raro che bambini e ragazzi cresciuti in territorio italiano, che abbiano o meno ottenuto la cittadinanza, spesso dopo anni di sofferenza psicologica, tra emarginazioni ed estraneità, non vengano collegati all’origine dei loro genitori stranieri. È sufficiente avere una tonalità appena più scura del colore della pelle o un fenotipo lievemente non europeo o un accento fonetico solo un po’ più nasale o gutturale, per farli percepire come stranieri. Quante volte si sono sentiti ripetere “come parli bene l’italiano”, sebbene non conoscano minimamente la lingua dei loro antenati o non abbiano mai messo piede nella terra natale dei genitori, o che abbiano formato la loro identità sociale nelle nostre città, nelle nostre scuole, insieme ai loro coetanei, pensando e parlando esattamente come loro, fin negli stereotipi gergali e nelle cadenze dialettali.
Nel suo libro Identità sospese tra due culture, il professor Vittorio Lannutti ha introdotto il termine di “sospensione dell’identità” per descrivere quello che in Italia provano i giovani con bagaglio culturale di origine diversa, scoprendo che circa il 38% di loro dichiara di sentirsi italiani, il 33% di sentirsi straniero e poco più del 29% non è in grado di rispondere alla domanda. Ma per meglio interpretare questi dati, va considerato il ruolo decisivo da attribuire all’età d’ingresso in Italia. Infatti, raffrontando le rilevazioni dell’Istat, tra i ragazzi arrivati in Italia dopo i dieci anni di età si sente straniero più di uno su due, mentre per i nati in Italia la quota scende al 23,7%.
Sempre seguendo la ricerca di Lannutti troviamo che i ragazzi definiti “di seconda generazione”, tra l’adolescenza e i vent’anni, sviluppano tre diversi tipi di dinamiche comportamentali:
1. Mimetismo sociale. Ritengono di dover ricorrere a questo stratagemma coloro che appartengono alle etnie ritenute portatrici di criminalità e disordine da molti mass media e dai partiti politici razzisti e populisti;
2. Razzizzazione. Il rifiuto di ogni riferimento al Paese di origine, per la paura di essere associati a connazionali che hanno commesso reati, eccessivamente enfatizzati dall’informazione;
3. Ibridazione/cosmopolitismo. Alcuni giovani stanno compiendo un percorso completo attraverso le due culture, per cui stanno maturando un atteggiamento cosmopolita, perché tendono a escludere steccati e differenze.
Tutto ciò mostra la fatica e la sofferenza che vivono questi i ragazzi: non solo per la mancanza di diritti per non poter accedere alla cittadinanza italiana, ma anche per un permanente disagio psicologico, emotivo e sociale. C’è un milione di italiani senza cittadinanza che non si merita l’ambigua definizione “seconda generazione”. Non sono secondi a nessuno, sono al contrario una prima scelta perché sono italiani nuovi, sono freschi, pieni di risorse e di competenze, sono resilienti, sono talentuosi, portatori di una pluralità creola e meticcia, unica e multiculturale. Persone che meritano di essere chiamati semplicemente ITALIANI.