Si sente spesso dire che il popolo non sa votare e cosa in effetti gli farebbe bene, così come altre espressioni che non sono altro che una forma di pregiudizio rispecchiata da parte di un gruppo di pensatori della classe dirigente.
Per comprendere meglio quanto siano destabilizzanti questi tipi di slogan per le nostre lotte come gruppo oppresso, dobbiamo tenere presente che, all’interno dell’imperialismo culturale, si possono classificare due distinti fenomeni:
- Viviamo sotto l’imposizione di modelli culturali egemonici delle classi dominanti. Questa imposizione porta a una privazione delle risorse per comprendere e interpretare la realtà per la maggior parte degli individui. Com’è noto, la comprensione e l’interpretazione sono utili per descrivere e dare un senso all’esperienza di un gruppo, soprattutto di coloro che subiscono l’oppressione.
- La stigmatizzazione di gruppi considerati “non egemonici”. Questo processo assume spesso la forma di una svalutazione delle capacità cognitive dei soggetti alla base della piramide sociale: proletari, neri, indigeni, donne, ecc. In questo senso, è problematico quando anche una parte dell’élite culturale di “sinistra” insinua che una parte del proletariato non sa come scegliere i suoi governanti.
Tante volte la classe dirigente in genere dà la colpa ai “poveri” che non sanno battersi a favore dei loro diritti, che non sanno come votare. In un’altra versione, più accademica della stessa espressione, c’è l’idea dell'”impoverimento cognitivo del soggetto proletario”, assumendo che in precedenza esistessero condizioni “naturali” o materiali di accesso all’istruzione, alla cultura e che il “soggetto ” era precedentemente più “illuminato”. Queste affermazioni creano e rafforzano solo degli stigma, cadendo preda dell’inganno del fenomeno dell’imperialismo culturale.
Entrambi i meccanismi enumerati sono attivati dal gruppo dominante per rafforzare, razionalizzare e legittimare la propria posizione di vantaggio, giustificando lo svantaggio di altri gruppi in base a caratteristiche naturali o attributi assunti. Questa operazione di razionalizzazione produce una sorta di “insensibilità” o cecità alle ingiustizie che colpiscono i gruppi svantaggiati, che, a loro volta, sono causate dal gruppo dominante.
Questi fenomeni si alimentano perché riproducono sia la mancanza di conoscenza di altri saperi non egemonici (epistemologie) sia introiettano quella che viene chiamata “violenza epistemica imperialista”. Cioè, la stragrande maggioranza degli individui diventa incapace di avere una conoscenza completa sia della realtà sociale in cui vive sia di se stessi e, quindi, è MENO incline a mettere in discussione, poiché questo soggetto presume che la conoscenza fino a quel momento trasmessagli è il “giusto”.
La classe dirigente tende così a favorire ulteriormente quello che viene chiamato il vizio epistemico della “meta-insensibilità”. Cioè, un intorpidimento cognitivo e affettivo che può essere descritto come un’insensibilità alla propria insensibilità. Questa classe è spesso consapevole di questo stratagemma. Altre volte, no.
In termini generali, la “Violenza Epistemica” può essere definita come una tecnica di dominio coloniale/capitalista/imperialista. È la violenza di coloro che, essendo dominanti, impongono un discorso e una posizione sociale che pongono la propria esperienza come quella corretta, “quella naturale” a scapito di un gruppo oppresso. Così la conoscenza della classe non egemonica, che in questo caso è considerata inferiore, viene “cancellata”, sminuita.
Qui non si tratta solo di un tentativo di promuovere l’invisibilità di un gruppo specifico, ma di sopprimere o diminuire la conoscenza dell’Altro di sé stesso per subordinarlo. Spesso facendogli credere che quella sia la sua posizione naturale di “ignoranza”, che è quello il posto che occupa e deve occupare nella società. Quindi, ad esempio, il soggetto crede di essere “nato per servire”, lo introietta e riproduce questo pensiero non solo nei confronti del dominante, ma in relazione ai suoi coetanei. Il che ti porta a una condizione di “accettazione” dello status quo.
È stato il caso di una collega della Favela dos Prazeres di Rio de Janeiro che, un giorno, accompagnando la madre “nera” al bancomat, la vide far passare davanti a sé tutti i “bianchi”. La figlia, poi, chiedendone il motivo, ha sentito la madre rispondere che “ha ritenuto naturale far passare QUELLI davanti”. In altre parole, secoli di colonizzazione, sommati a decenni di sfruttamento ed espropriazione, hanno fatto sì che la signora introiettasse la violenza, trovasse naturale una posizione subordinata e condividesse ancora con i suoi il proprio pensiero: “era così da sempre e tutto andava bene”.
In questo senso, l’efficacia della violenza epistemica è determinata dalla promozione dell’incapacità di riconoscere quella stessa violenza. Se il sistema egemonico fa sparire l’epistème, la coscienza della conoscenza, è difficile per il soggetto rendersi conto che può cambiare la sua situazione di sottomissione, di subalternità. Se il sistema egemonico nasconde le condizioni storiche che agiscono sul funzionamento della realtà quotidiana e che sono in grado di promuovere la critica, allora non c’è critica. E se non ci sono critiche, allora la percezione è che non ci siano problemi da affrontare. E, così, il ciclo del dominio/sottomissione è mantenuto.