Se ci ostiniamo a non raccogliere dati sulle donne, sul loro vissuto e sulle loro esperienze, continueremo a normalizzare la discriminazione di genere non consentendole di emergere nella sua pervasività.
Goldin che insegna economia all’Università di Harvard, ha ottenuto il prestigioso riconoscimento per aver accresciuto “le nostre conoscenze sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro”. Claudia Goldin è riuscita a raccogliere dati che vanno a coprire almeno 200 anni di storia degli Stati Uniti. Grazie ad un archivio di questa portata è riuscita a comprendere come siano cambiate nel corso del tempo le differenze di genere per quanto riguarda i guadagni e il tasso di occupazione.
Il Nobel a Claudia Goldin accende la lampadina che per troppi anni se non secoli, è rimasta spenta in merito all’importanza e alla necessità di avere dei dati che riguardano le donne.
Il saggio di Caroline Criado Perez, si lega perfettamente a Claudia Goldin a mio avviso. Offre diverse riflessioni e chiavi di lettura sulla discriminazione di genere, ma la rivoluzionarietà del libro risiede nel coraggio dei dati, nella mole e nel dettaglio dei riferimenti bibliografici (70 pagine) e nella loro copertura geografica, che spazia dai paesi Ocse a quelli meno sviluppati.
I dati raccolti ci parlano di un mondo istituzionale, scientifico, tecnologico e culturale che ignora con sistematicità le donne. La storia del mondo che ci circonda – dalla medicina ai bagni pubblici, dai dispositivi di protezione individuale alle automobili – si è rinnovata per secoli ignorando sostanzialmente metà della popolazione mondiale, senza porsi il problema dell’esistenza di specificità che potessero comportare la necessità di condurre studi specialistici.
In una società costruita a immagine e somiglianza degli uomini, metà della popolazione, quella femminile, viene sistematicamente ignorata.
Il tema è importante, perché non si tratta solo di equità, ma anche di efficienza. Se le donne partecipano meno degli uomini al mercato del lavoro, si crea una perdita di talenti, di competenze e di lavoro e si riducono gli incentivi al lavoro di altre donne.
Ancora oggi solo il 50% delle donne nel mondo lavorano, mentre la percentuale di uomini occupati è l’80 per cento. Quando lavorano, le donne sono pagate meno degli uomini – la differenza si attesta mediamente intorno al 13% nei Paesi Ocse – e difficilmente arrivano alle posizioni apicali.
Secondo l’«Economist», l’Islanda è il miglior Paese al mondo per le donne lavoratrici.
L’espressione «donna lavoratrice» è una tautologia. Non esiste una «donna non lavoratrice»: esiste tutt’al piú una donna che non viene pagata per il suo lavoro.
In tutto il mondo, il settantacinque per cento del lavoro non retribuito è svolto dalle donne’; la quantità di tempo dedicata ogni giorno al lavoro gratuito va dalle tre alle sei ore, contro una media maschile che varia da trenta minuti a due ore’. La disparità comincia presto (le bambine di cinque anni sbrigano già molte piú faccende domestiche dei loro fratelli) e aumenta con il passare degli anni.
Potremmo dire che in tutto il mondo, con pochissime eccezioni, il nostro orario di lavoro è piú lungo di quello degli uomini. Non tutti i Paesi forniscono dati disaggregati per sesso, ma quando i dati ci sono la tendenza è chiara. In Corea del Sud le donne lavorano ogni giorno trentaquattro minuti piú degli uomini, in Portogallo novanta, in Cina quarantaquattro, in Sudafrica quarantotto”.
Secondo la Banca mondiale le donne ugandesi lavorano in media quindici ore al giorno, e gli uomini solo nove.
In India il lavoro non pagato rappresenta il sessantasei per cento dell’orario lavorativo femminile, contro il dodici dei maschi. In Italia il sessantuno per cento del lavoro femminile è lavoro non retribuito, mentre la quota maschile si ferma al ventitre; in Francia, le percentuali sono rispettivamente del cinquantasette e trentotto per cento.
Il problema è che le donne non sono libere da responsabilità di cura. È solo che il loro lavoro è invisibile.
Per conciliare nel migliore dei modi lavoro retribuito e responsabilità di accudimento, le donne scelgono il part-time: stiamo parlando del quarantadue per cento delle lavoratrici in Gran Bretagna, contro l’un per cento dei maschi, ovvero di una forza lavoro part-time composta per il settantacinque per cento da donne. Ma chi lavora a orario ridotto riceve una paga oraria inferiore rispetto ai lavoratori a tempo pieno, anche perché gli incarichi che prevedono il job sharing o l’orario flessibile non sono quasi mai di alto livello. E cosí che le donne finiscono per accontentarsi di mansioni al di sotto delle loro capacità, che garantiscono la flessibilità di cui hanno bisogno ma non lo stipendio che meritano.
Essere una donna non può essere la ragione per cui ci si attende che si venga pagate meno, e che si scelga il part-time per prendersi cura di figli, anziani e ammalati.